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Cosa voglio fare da grande 

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COSA HO VOLUTO FARE DA GRANDE 

di Arturo 

 

Per la fine del ciclo della scuola elementare ho frequentato una quinta classe “parallela” costituita per scolari intenzionati a partecipare agli esami di ammissione alle scuole superiori comprendenti, nella mia città, il Liceo Classico e l’Istituto Tecnico per Ragionieri e Geometri.

Superato l’esame, sono stato iscritto al corso per geometri, escludendo il Liceo per il quale si riteneva necessaria, per un immediato impiego, l’ulteriore frequenza dell’Università per conseguire anche una laurea.

Terminati i quattro anni di corso  e conseguito il diploma di geometra ho trovato lavoro presso uffici statali prima come precario e poi come impiegato di concetto in seguito al superamento di concorso pubblico.

Nel frattempo vedevo, con una certa larvata invidia, i vecchi compagni delle elementari che si laureavano e iniziavano le loro attività professionali; ormai però la mia strada era tracciata.

Avvenne però che un giorno, in uno studio professionale nel quale mi trovavo occasionalmente per lavoro, è entrata una ragazza ivi impiegata che, tutta emozionata e esultante, ha annunciato di essere stata promossa Ragioniera e di volere ora iscriversi all’Università per la Laurea in Giurisprudenza.

Vista la mia perplessità ha aggiunto che ormai non era più necessario il previo conseguimento della maturità liceale, per cui avrei potuto farlo anch’io senza problemi.

E’ stato, come suol dirsi, un “mettere la pulce nell’orecchio” . Ho cominciato a pensarci e sentire imperioso il desiderio di impegnarmi anch’io, malgrado l’età ormai matura.

Alla fine ho deciso e ne ho parlato in casa. La moglie si è dichiarata d’accordo e ben disposta purchè mi impegnassi seriamente senza trascurare la famiglia, mentre la figlia scolara elementare, ha chiesto di non farlo sapere in giro perché si vergognava che le sue compagne venissero a sapere che il suo papà venisse ancora a scuola.

Fu così che il 27 ottobre 1972 mi sono iscritto al corso di Laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Milano e mi sono gettato totalmente a studiare occupando ogni momento lasciato libero dal lavoro. Il libro a tavola mi faceva da contorno al cibo, in metrò lo consultavo anche con più impegno di come ora si usa con il telefonino.

Il 28/5/1973 ho dato il primo esame e il 23/3/1977 mi sono presentato per sostenere l’esame di Laurea.

Quello è stato un giorno del tutto particolare. In casa non ho detto niente per evitare di essere seguito o di fare preoccupare, in ufficio ho chiesto una mezza giornata di permesso per necessità imprecisate e ho raggiunto l’aula dove si svolgevano gli esami. Qui malgrado la preoccupazione per il mio compito da assolvere, non ho potuto fare a meno come gli altri esaminandi, un tempo capelloni e trasandati, erano ora eleganti, stirati con giacca e cravatta e ben pettinati; certo cominciavano ad entrare nei panni del futuro avvocato.

Arrivato il mio turno sono entrato e mi sono seduto davanti alla Commissione d’esame. Di come è andato l’esame non ricordo più nulla perché ero troppo teso ed emozionato; mi è rimasto solo impresso l’atto finale quando ho visto il Presidente che ha scambiato qualche parola con gli altri componenti il Collegio, tutti si sono alzati, il Presidente mi ha detto alcune parole complimentandosi e infine mi ha dato la mano come pure hanno fatto gli altri.

Tutto frastornato sono uscito senza aver ben compreso cosa era successo finché i compagni presenti mi hanno detto “Complimenti, 110 e lode”

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COSA MI PIACEREBBE FARE DA GRANDE

di Teresa

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Molto spesso ai bambini si domanda: cosa farai da grande? Le risposte possono essere molto divertenti ed anche sorprendenti, ma le scelte non sono mai definitive. Infatti man mano che si cresce il “Cosa farò da grande” cambia fino a diventare un desiderio concreto; oppure rimane solamente un bel sogno quando devi accontentarti di ciò che la vita ti riserva.

Per quanto mi riguarda, ricordo che quando ero ancora adolescente, nelle confidenze fra le varie amiche ascoltavo stupita con quanta convinzione parlavano del principe azzurro, del matrimonio in abito bianco con lo strascico, dei figli che avrebbero avuto e di altro ancora.

In quei tempi, parecchio lontani, le ragazze pensavano al matrimonio come meta da raggiungere perché generalmente la donna era destinata ad occuparsi della casa; poche erano quelle che si dedicavano allo studio, e dopo le scuole elementari imparavano un mestiere o, al massimo, facevano tre anni di scuola media o commerciale.

Forse, geneticamente, i poveri non fanno sogni ad occhi aperti: io non li facevo. Ascoltavo e partecipavo a quelli degli altri; alla fine questo comportamento diventava positivo perché evitava di provare delusioni,. Niente illusioni = nessuna delusione.

Ho sempre fatto lavori che mi son piaciuti, perché ho sempre goduto di piccole cose, come di una gentilezza ricevuta,  di un sorriso o di un apprezzamento; ma anche goduto di una giornata di sole, di un bel tramonto o di una notte stellata.

Strada facendo avrei potuto incattivirmi, non per i progetti non realizzati (del resto mai fatti) ma per le ingiustizie subite come, ad esempio, per una eredità cospicua della quale non ho mai potuto godere; per la banca che di punto in bianco ha dimezzato il valore delle proprie azioni ed i miei risparmi si sono ridotti del 50%; oppure per il fallimento della società presso la quale per molti anni ho lavorato e di conseguenza… zero liquidazione!, e qui mi fermo.

La salute in famiglia era buona ed io ho continuato ad accontentarmi di “piccole cose”.

Comunque penso che, se avessi saputo sognare, da grande mi sarebbe piaciuto lavorare in un laboratorio di analisi medica, o chimica o, meglio ancora, di ricerca perché ero brava in matematica, avevo pazienza ed ero (e lo sono ancora) pignola.

Questo, si capisce, se solo avessi saputo sognare!

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COSA VOLEVO FARE DA GRANDE

di Carlo

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Fin da giovane andare a  scuola era una sofferenza: non mi applicavo nel modo giusto: per questo, raggiunta la terza media a quattordici anni, subito sono andato a lavorare come apprendista pellicciaio, ma dopo alcuni anni ho dovuto smettere perché ero allergico al pelo.

Finito il militare ho trovato un posto come fattorino in una ditta farmaceutica per il trasporto di taniche per gli ospedali, ma era un lavoro faticoso e mal pagato.

Grazie alle conoscenze di mia madre sono stato assunto come dattilografo in una ditta metalmeccanica molto conosciuta in Italia e all’estero. Questo era l’inizio, poi dipendeva da me perché c’era possibilità di miglioramenti.

Dopo un anno mia madre mi consiglia di partecipare al concorso di vigile urbano.

Provare non costa nulla quindi mi reco in un’aula enorme dell’Università per la prova scritta. Dopo due mesi arriva l’esito; sono sufficiente, posso passare agli orali. Mia madre è contentissima, mentre da parte mia c’è la sorpresa, lo stupore. Per l’orale mi danno un opuscolo da studiare per poi rispondere a delle domande.

Il giorno dell’esame rispondo a domande sulla Costituzione, sul Parlamento e sulle problematiche delle votazioni.

L’esito è  positivo: dopo un mese ricevo l’invito a presentarmi in piazza Beccarla per l’assunzione come vigile urbano.

Adesso toccava a me prendere questa decisione. E’ un’occasione da non perdere, un posto sicuro, uno stipendio adeguato, tante agevolazioni, una divisa da portare con rispetto verso il prossimo.

Però nell’azienda dove lavoravo ero passato a fattorino, quindi impiegato, andavo bene, ero in armonia con i colleghi, per me era una seconda famiglia.

Le discussioni in famiglia erano infinite, puoi cambiare vita, sarai considerato da tutti. E’ un privilegio per noi, mi diceva mia madre.

Conoscendomi ero imbarazzato. Tra me dicevo come avrei cambiato il mio carattere volonteroso e pieno di energia con un lavoro di routine, e poi il contatto con la gente: è questo il punto in cui si addestrava il principiante vigile perché può mandare la persona all’esasperazione.

In conclusione quel giorno ho rinunciato, ho deluso i miei genitori, ora che sono in pensione mi chiedo come sarebbe andata a finire. Di sicuro a sessantenni nei vigili sarei ancora in servizio.

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COSA VOLEVO FARE DA GRANDE

di Fernanda

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Se mi avessero chiesto da bambina o da adolescente, cosa avrei voluto fare da grande, non avrei saputo rispondere. Tutto ciò che riuscivo a fare era sempre di mio gradimento.

Non avevo uno scopo; apprendevo perché ero molto curiosa di conoscere le novità. Quando ero alle medie conseguii un diploma di stenografia perché mi piacevano quei segni che corrispondevano alle parole. La stenografia non l’ho mai utilizzata per lavoro, riuscivo a fissare le parole di qualche canzone della mia epoca, nel poco tempo disponibile. Alle superiori mi fecero recitare, non ho mai desiderato diventare un’attrice. Avevo una bella voce da contralto puro. Terminata la guerra con una mia amica soprano, entrammo nel coro dell’Angelicum che faceva concerti il sabato e la domenica. Ci distribuivano, come compenso, un paio di calze di pura seta, rarissime in quel tempo.

Per mettermi alla prova, presi anche lezione da una maestra di canto in pensione, ma rinunciai quasi subito perché insisteva nel farmi cantare la “Carmen di Bizet” come mezzo soprano. Poco ci mancò che mi rovinasse la voce.

Non ho mai pensato di intraprendere la carriera di cantante lirica. La mia vita determinò da sola il mio destino; non ho rimpianti, anzi ero pessimista da giovane e sono diventata ottimista in vecchiaia.

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