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I luoghi del cuore

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IL  POSTO DEL CUORE

di Noemi

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Da bambina avevo scelto  un luogo che mi faceva stare bene, era in Friuli ed era il mio posto segreto. Appena arrivavo da Milano correvo lì. Era nel sentiero per scendere al ruscello, il punto era proprio fra due alberi di acacie e il panorama, per me, era bellissimo. Si vedeva la distesa di sassi bianchi e il fiume e tutti i sentieri che conoscevo bene e dove a volte trovavo dei tesori: dei fiori di bocca di leone, delle pietre calcaree che brillavano al sole. Stranamente è rimasto tutto uguale e l’ho verificato proprio quest’estate quando sono tornata  a vederlo, sono rimaste anche le due piante, sempre rigogliose.  Mi è sembrato incredibile. Tutto era uguale, ma ero io che ero cambiata: il posto non mi dava più quella serenità che mi dava in passato, c’erano mille anni da quel tempo, mille eventi nella mia vita e sono ora un persona diversa… Nel mezzo c’è l’incidente stradale che ha spezzato in due la mia vita, c’è un “prima” e un “dopo”. Dal coma mi sono risvegliata e  sono rinata con una consapevolezza diversa di quello che è la mia vita. Il mio modo di vivere non è più lo stesso:  per questo non è più il luogo dove trovare pace e mi sembra di non riconoscerlo.

Se devo pensare a un posto speciale è la trattoria che avevamo una volta, con tutte le persone che la frequentavano e soprattutto con  i miei genitori. E’ con loro che sento il mio cuore, li vedo come erano  e ripenso alle loro fatiche, al loro lavoro e tutto mi appare, nel ricordo, mondato dalle pesantezze, dai malumori e dai problemi quotidiani.

Mia madre da giovane era stata una donna molto bella: aveva i capelli castano scuro e gli occhi verdi, era di indole allegra e cantava molto bene. Al paese conoscevano questa sua dote e la invitavano sempre a intonare i brindisi in friulano che cominciavano con il suo “a solo” e finivano in un coro generale. La sua famiglia di origine era stata abbastanza agiata rispetto alle altre che vivevano di agricoltura: mio nonno aveva lavorato nella mitica costruzione della Centrale di Barcis  e nella costruzione della strada della Valcellina,  poi era stato assunto dall’Enel. Nei miei ricordi, però, io lo rivedo immobile nel letto, mentre  gli giro i fogli del giornale steso su un leggio: era infatti caduto da una scala ed era rimasto paralizzato. Mia madre aveva sempre aiutato ad assisterlo, sino a quando si era sposata.

La cucina della trattoria  era assegnata a lei e faceva dei piatti semplici e tradizionali, ma riscuoteva molto successo.Lavorava sempre: in osteria, in casa, al banco del bar …

Mio padre era un uomo forte, temprato dalle difficoltà della vita che per lui era stata molto dura. A undici anni era venuto a Milano a lavorare come garzone di un lattaio, perché mio nonno,  tornato dalla guerra di trincea del 1915-18 con i polmoni minati dai gas, non riusciva a lavorare ed aveva ben quattro figli.  Mia nonna si ingegnava a fare piccoli lavori, ma non potevano farcela. Una vita dura per questa famiglia che contava origini nobili e  un passato di ricchezza. Così  era venuto a Milano a raggiungere il fratello più grande che già lavorava per mantenere la famiglia. Mi raccontava che in questa città esistevano enormi differenze nei ceti sociali.  Era stato soldato semplice, poi era stato promosso sergente;  aveva combattuto e si era salvato per il suo grande intuito in molte circostanze.

Non era un uomo facile da trattare, comandava con  un pugno di ferro la trattoria, stabiliva delle regole che tutti i clienti conoscevano e chi sgarrava sapeva che aveva a che fare con un uomo deciso, che non scherzava. Così guai a chi importunava le sue donne (mia madre o una di noi tre sorelle) e nonostante vivessimo in trattoria non ho mai ascoltato cose oscene e nessuno mi ha mancato di rispetto, anche se portavo delle minigonne così corte, che a pensarci ora mi sembra impossibile! Comunque erano altri tempi e c’era meno volgarità di adesso.

Ogni giorno dovevamo affrontare delle difficoltà , ma vivevamo con tanta gente intorno: i vicini della casa di ringhiera, i clienti del bar. Per fortuna continuo a vivere in questa zona e così alcune di queste persone continuo a incrociarle o a vederle, a parte il fatto che ho sposato proprio un grande frequentatore del nostro locale.

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I LUOGHI DEL CUORE

di Donatella

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Quando Noemi mi ha riferito che ci saremmo dovuti impegnare in questo tema, ho immediatamente pensato a Roma e i ricordi, lontani nel tempo ma vivi e presenti nel cuore, hanno preso a danzare nella mia mente, così come la musica, l’arte e la poesia che hanno inondato di emozioni e di gioia quel periodo della mia tenerissima età.

La mia famiglia materna ha origini romane, così profondamente romane che mia nonna, suo malgrado tristemente trasferita a Milano con il nonno, interpellata sulla sua provenienza usava rispondere sottolineando con orgoglio campanilista “ romana da sette generazioni!”.

I miei genitori lavoravano entrambi ed io sono cresciuta nella casa dei nonni “romani da sette generazioni”, circondata da cinque zii conseguentemente “romani da otto generazioni” .

In famiglia si usava andare a comperare i salumi dal pizzicagnolo e non si cucinavano i bucatini all’amatriciana (rigorosamente a base di guanciale!!) senza indossare la parannanza per evitare che il succulento sugo macchiasse le candide vesti della cuoca.

Così, quando mio nonno dovette temporaneamente ritornare a Roma per motivi di lavoro, la nonna era al settimo cielo : meno felici erano i miei genitori nel realizzare immediatamente che io  avrei dovuto seguire i nonni per permettere loro di lavorare.

Non ricordo i particolari della partenza, ma appena giunsi a Roma capii che lì le cose andavano diversamente: l’aria era profumata e l’estate era incredibilmente fresca e gradevole; soffiava sempre una brezza leggera (forse il cantato venticello de’ Roma) , le strade erano affollate sia di giorno che di sera e la domenica le trattorie  brulicavano di gente festosa che mangiava e cantava gli stornelli spesso accompagnati da chitarre e mandolini.

Avevo solo cinque anni ma questa percezione di diversità dalla mia città natale mi fu subito chiara e non feci alcuna fatica ad abituarmi ai nuovi ritmi e alle nuove abitudini.

Mio nonno era un artista: in maniera del tutto autodidatta, era in grado di fare sculture, disegni, creazioni con il gesso e con la creta: per questo eravamo a Roma, per  un lavoro di decorazione di alcune ville che gli era stato assegnato.

Con questi presupposti, subito trovò il suo habitat naturale all’interno di un circolo alternativo chiamato “Er buco d’oro” che, da fucina di creatività, ingegno e sregolatezza, di sera si trasformava in una tipica osteria frequentata da poeti, musicisti, scrittori, pittori nati e cresciuti a Roma e legati alla città da una passione viscerale.

Tutte le sere con la nonna e il nonno non mancavamo mai al silente appuntamento con tutti questi strani personaggi. Io ero l’unica bambina presente in quel locale ma non soffrivo assolutamente di solitudine e malinconia: ero la mascotte di tutti, i pittori mi cercavano per farmi ritratti, i poeti mi chiamavano in segreto per farmi imparare a memoria le loro nuove opere che avrei poi recitato nel salone nel silenzio totale dei presenti, tutti facevano a gara per avermi al loro tavolo e mi coccolavano con dolcetti e complimenti. Con il senno di poi mi sono spesso chiesta come mai tutte le coppie presenti non avessero bambini quando, dal comportamento nei miei confronti, sembravano assolutamente desiderosi di avere marmocchi da accudire ed amare. Ma forse gli artisti temono i legami e sappiamo quale legame costituisce un pargolo da crescere.

Un fermento che non ho mai più vissuto regnava sovrano all’interno di quelle mura: tele colorate passavano di mano in mano ad accogliere commenti e giudizi, le note di qualche compositore in erba si levavano dallo sgangherato pianoforte e i versi di Trilussa erano quotidianamente recitati, spesso anche da quella bimba bionda milanese che, assolutamente a suo agio, scandiva le poesie in un dialetto che avrebbe sfidato chiunque a sostenere che non fosse il suo.

La mamma e il papà venivano tutti i sabati a trovarmi ma il tempo con loro volava e alla domenica sera perdevo tutta quella vivacità e spensieratezza e mi rattristavo così tanto per  la loro partenza che gli amici del Circolo si inventavano sempre qualcosa di nuovo per farmi tornare a sorridere.

Roma era bellissima!! Con la nonna passavamo i pomeriggi con i parenti o a passeggio per le vie della città e la nonna mi raccontava i luoghi della sua infanzia, Trastevere, via Giulia, via dei Banchi Nuovi e tutto sembrava un sogno che ti mozzava il fiato quando ti sedevi a mangiare il gelato sulle sponde delle fontane di Piazza Navona o correvi su, veloce, a Trinità dei Monti guardando divertita i turisti increduli di tanta bellezza di cui tu ti sentivi un po’ orgogliosa padrona!

Così passavano i giorni, le settimane e anche i sei mesi di permanenza prevista in quella meravigliosa città.

L’ultima sera all’ Osteria der Buco d’Oro fu tristissima e nello stesso tempo gioiosa. Recitai come al solito le poesie imparate a memoria nell’ ultima settimana (l’esercizio mi fu utilissimo  nell’età scolare) e  cantai  gli stornelli romani alla stregua della “ciumachella de’ Trastevere” .

Quando sul finire della serata iniziò il rito dei saluti, tutti avevano un dono per me: un disegno, un libro, un disco di Beniamino Gigli, ma il piacere più grande mi fu donato dai due poeti più apprezzati del circolo, che mi dedicarono entrambi una poesia e la recitarono loro stessi con gli occhi lucidi per la commozione. Prima dell’ultimo saluto un anziano poeta mi chiamò e mi regalò un giornale di cultura locale dove sulla prima pagina campeggiava “Alla cara bambina Donatella Billi”  ….. Avevo il fiato sospeso per l’emozione e  in quel momento ringraziai mentalmente il nonno (oltre al noto maestro Manzi) per avermi insegnato a leggere fluentemente a 4 anni.

Bevvi le parole di quei versi dedicati a me, proprio a me, e pubblicati sul giornale più noto  nei circoli della cultura romana dell’epoca .  Arrivai in fondo alla pagina e impressi nella mente la delicatezza di quelle parole che valevano più di ogni altro dono materiale e terminai la mia esperienza romana sull’endecasillabo dell’ultimo verso ….”l’acrostico è finito in tuo favore, anche pe’ ditte che sei come ‘n fiore!”.

Direi che questa singolare esperienza ha segnato in qualche modo la mia vita, il mio approccio con l’arte e con la musica: il destino ha voluto però che io fossi l’unica della famiglia a non aver  ricevuto in eredità quella sensibilità , quella destrezza nel creare, disegnare, suonare che invece è propria di mia madre e dei miei cugini … e di questo mi rammarico molto!

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